ANDY WARHOL A PALAZZO REALE
L’esposizione a Palazzo Reale di 160 opere di Andy Warhol dalla Brant Foundation è un importante omaggio, visivo e concettuale, al genio, mai dimenticato, della Pop Culture. Che getta luce e fa riflettere, con una scelta artistica interna e viscerale, sul cameratismo ingenuo e sul processo creativo naif della Factory dei tempi dorati.
Era appena ventenne il collezionista d’arte Peter Brant quando, con lungimiranza folle e visionaria, acquistò la sua prima opera di Warhol, un disegno della famosa Campbell’s Soup, iniziando quella che sarebbe diventata una delle più importanti collezioni di arte contemporanea del mondo.
I due divennero poi sodali, fondando un paio di anni dopo la rivista Interview, bibbia dei giovani creativi, magazine culto per una generazione mossa da urgenza espressiva nella New York più tollerante, godereccia e fucina di talenti che si ricordi.
La commozione per la scomparsa di Lou Reed innalza il livello di suggestione fino in cielo, salendo le scale che conducono alla Mostra, portando il pensiero a quelle catene infinite che legano il talento, l’insana follia, la creatività irregolare e mai piegata alle regole, gli incontri che cambiano le vite. Attenzione, il mondo è dietro di te, c’è sempre qualcuno vicino a te che ti chiamerà, le note di Sunday Morning avvolgono l’ingresso e dicono tutto sull’intreccio di Vite, intenti comuni e Muse da cercare che hanno partorito i Velvet Underground. Con la banana sullo sfondo.
Il Warhol illustratore, gli autoritratti, le spettacolari Ultime Cene. Poi la serigrafia, irregolare e frammentaria per sua stessa definizione, che trova il suo culmine nelle Dodici Sedie Elettriche dove nemmeno il colore riesce a lenire il senso di morte e il fondale scuro cambia le ombre. Poi gli Skulls, ancora la morte che fa capolino, dopo l’attentato subito da Valerie Solanas. I Camouflage del 1985, ampiamente ripresi da stilisti e designer in questi anni. Ne sarebbe stato compiaciuto, lui che della serialità e del furto artistico è stato il pioniere, convinto che gli oggetti del consumismo di massa potessero assurgere a icone. E che la ripetizione, la sottrazione, le sottolineature grossolane dessero nuovo significato alle opere e ai pensieri. Non è forse ciò che facciamo con Twitter e i Social Network?
La bocca rossa di Marilyn e il make-up turchese di Liz ci ricordano i tratti forti della sua opera e Blue Shot Marilyn – il ritratto della famosa attrice Americana con in mezzo agli occhi il segno restaurato di un dei colpi di pistola esploso da un’amica dell’artista nel 1964, che Brant avrebbe poi acquistato per 5000 dollari nel 1967 con i proventi di un piccolo investimento – troneggia inquietante, quasi a rammentarci la vacuità dell’esistenza, le schegge di follia che uccidono la fama, John Lennon, JFK, MLK….
Una galleria di Polaroid mai viste prima in Europa, nelle quali sfilano Vitas Gerulaitis e Stallone, Halston e Jagger, lo sguardo ipnotico di Easy Rider Hopper e gli occhi da gazzella di Diana Ross.
Prima di uscire, nell’ultimo corridoio, dove il dolore crepa nuovamente l’anima. Lou Reed canta Heroin: non so dove sto andando ma proverò per il regno dei cieli se ci riesco, heroin, mia moglie e la mia vita, una linea che collega la vena alla mia mente, poi starò meglio, e ringrazierò Dio di essere morto…. Avanza il violino dissonante di John Cale e sul video proiettato a parete sembra, o è veramente così, ci sia una sincronia tra il canto di Lou e la bocca di Andy che si muove.