JONATHAN WILSON, FANFARE

Mi sono invaghito di Jonathan Wilson. L’innamoramento musicale è così, giunge lieve e improvviso, carico di antiche suggestioni, col potere evocativo di crearne nuove.
È periodico, si incastona tra i miti, li affianca e li accompagna nel cammino. Come nei rapporti umani, sarà che cerchiamo gli stessi profumi, vagheggiamo sensazioni già provate e, quando qualcuno ce le porge, sentiamo la fiamma accendersi. Di nuovo.

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Questo amore arriva col tepore autunnale, nelle sue pieghe musicali si nasconde il vento e il deserto, odora di California, onde imbizzarrite e canyons profondi, rifugi di scarti della società per bene e artisti che non trovano posto nei circuiti tradizionali. Lui pare uscito dall’anno di grazia 1971, pur avendo le stimmate di un moderno hobo, che scaraventa una presunta, ad un orecchio distratto, nostalgia démodé nel ventunesimo secolo.

Instagram vintage e seppiate di un’epoca che parla di David Crosby e Neil Young, Dennis Wilson e Roy Harper, Laurel Canyon e l’utopia hippy.
Immaginate un Kurt Cobain, meno votato all’autodistruzione e più propenso ad inseguire uno spiritualismo hippy e universale. Non ce lo vedo a bruciare la sua identità sull’altare del business, posto che il grunge ne faccia il suo eroe. Né a scegliersi una compagna come Courtney Love.

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La sua fanfara è quanto di più lontano dall’immediatezza e dall’urgenza espressiva di chi brucia la sua vita, è una coralità che stabilisce una comunione d’intenti, è una voce sussurrata, una chitarra liquida, archi spruzzati qua e là, clarinetti dissonanti e pianoforti che trillano, tastiere che viaggiano su panorami a perdita d’occhio.

Sono gli echi di una California immaginifica e solare, tappeti sonori che mischiano il folk al progressive, accenni free-jazz che spezzano il ritmo di una ballata, un soul ammiccante che si alterna ad un ruggito alla Neil Young.
Se proprio da qualche parte si deve partire per raccontarlo, che sia If I Could Only Remember My Name, il seminale capolavoro di David Crosby, 1971. Quelle chitarre arpeggiate su percussioni flebili e cori da pelle d’oca. Poi si passa necessariamente da Dennis Wilson, il sottostimato fratellino dei Beach Boys, talentuoso e belloccio, sotterrato dalla saga talvolta infida dei Beach Boys e morto annegato, tra le braccia del suo grande, unico amore, l’Oceano Pacifico. E si arriva a Moses Pain, canzone che racchiude il perfetto songwriting delle praterie americane, quello che attraverso interpreti come Jackson Browne ci porta a talenti come Ryan Adams e, appunto, Jonathan Wilson: quel finale che reitera keep on ridin’, con l’organo che svolazza e la slide guitar che fa tanto David Lindley è di quelli che si vorrebbe non finissero mai. Disco dell’anno e un posto speciale nell’anima.